Il teatro non è un malato immaginario: ha bisogno di tornare a sorprendere, di trovare altri linguaggi e protagonisti e talenti; di rinnovati entusiasmi per affrontare il nuovo. Perché il teatro può aiutarci a credere in un futuro possibile. In un mondo che sta cambiando davvero, soffocato da un coacervo di stupidità e ignoranza, mostri alimentati dall'audience televisiva; in un deflagrare di grandi frastuoni da discoteca che coprono i silenzi udibili del teatro, occorre che la fantasia e l'amore, parole da affidare ad un rito da catacombaroli, siano le chiavi per far vincere l'uomo e innestare le radici di una rivoluzione copernicana nel nostro tempo: come la prima, che fu coeva dell'Amleto, il capolavoro assoluto. Il capolavoro perfetto, Amleto, perché il meno letterario, dunque imperfetto, pieno di buchi che ne affermano ossimoricamente la grandezza, paradigma di quel teatro che è «un'ipotesi di qualcosa che sta per accadere», un teatro capace di reinventarsi con la potenza di un Picasso, e che se riuscisse ad essere tutto ciò, sarebbe un teatro che ha finalmente trovato un pubblico ed un domani.
Affermazioni apodittiche, riflessioni filosofiche, citazioni, sollecitazioni, entusiasmi e speranze per un happening sotto le stelle: ne sono stati artefici l'altra sera, a Forio, Giorgio Albertazzi e Maurizio Scaparro, ospiti delle Cantine Pietratorcia nell'antica libreria di Vito Mattera. L'incontro, coordinato da Edoardo Sant’Elia, che ha proposto un'apparente antitesi tra il razionalismo di Scaparro-Cartesio e le non-soluzioni di Albertazzi-Shopenauer, aveva un titolo flessibile: «Memorie del futuro, gli anni a venire dello Spettacolo in Italia». Un invito alla discussione mutata in performance polifonica, ampiamente annunciata e coinvolgente. La pergola, l'angustia degli spazi sotto il lampione nel violetto dedicato a Cesare Calise, che scivola in pendenza verso il porto e il mare foriano; gli spioventi della chiesa di San Gaetano, ed il flusso del dialogo hanno contribuito ad accentuare l'estiva, affollata e comunque domestica memorabilità dell'evento, segno del «bisogno delle persone di ritrovarsi lontano dalla fissità degli schemi e schermi televisivi».
Non sono mancati richiami all'insularità ischitana «poco avvertita», secondo Albertazzi, in una terra che è stata la prima meta dei coloni greci, tema caro (la Magna Grecia) in questo periodo, all'attore e regista che si definisce «scrittore che recita», e che ha concluso la soirée con un'interpretazione del 26.mo canto dell'«Inferno» dantesco («Lo maggior corno de la fiamma antica»), non senza aver ricordato che a Roma, al teatro Argentina che dirige, riprenderà a breve le «Memorie di Adriano», regia di Scaparro, dopo un debutto a Milano ed una tappa a Praga. Mentre sarà a Napoli con «Quando si è qualcuno» di Pirandello.
A proposito di Napoli. Per Albertazzi «è una civiltà», ma Maurizio Scaparro non si è sottratto ad una nota dolente, citando il ciclo dei «Ragazzi di vita» del pittore Vespignani: «A Napoli ci sono gli occhi del benessere malinteso, frutto di crimine e camorra, perché non dirlo? La gente sorride meno - ha aggiunto - è più cupa. Di chi è la colpa? Né della destra, né della sinistra; la colpa è anche un po' di Napoli». Un colpo di teatro la salverà?
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